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Un’autobiografia lirica

I «Canti» di Giacomo Leopardi

by Fanny Capizzi (Author)
©2015 Thesis 342 Pages

Summary

Fra le molteplici opere di Giacomo Leopardi, scrittore precoce e prolifico come pochi, manca un’autobiografi a: restano i progetti giovanili, abbozzi ricchi di spunti, ispirati a Rousseau e Alfieri, mai portati a termine. Eppure, la «storia di un’anima» di Leopardi potrebbe non essere stata completamente abbandonata, se non nella forma originaria del romanzo. All’interruzione dell’ultimo abbozzo, nel 1825, potrebbe infatti corrispondere una nuova prospettiva, orientata anche da circostanze biografiche. Leopardi, confrontatosi con il commento alle Rime di Petrarca e la compilazione della Crestomazia poetica, si è forse ispirato a queste autobiografi e liriche per ridisegnare l’indice dei Canti e raccontare la sua vita con il linguaggio evocativo e nel contempo controllato dei versi.

Table Of Contents

  • Copertina
  • Titolo
  • Copyright
  • Sull’autore
  • Sul libro
  • Questa edizione in formato eBook può essere citata
  • Indice
  • Introduzione
  • Capitolo I: Leopardi, autobiografo adolescente
  • Capitolo II: Modelli di romanzo autobiografico
  • Capitolo III: Prima dell’autobiografia lirica: progetti di romanzi autobiografici
  • Capitolo IV: L’abbandono del romanzo autobiografico
  • Capitolo V: Modelli di autobiografie liriche
  • Capitolo VI: La storia dei Canti verso l’autobiografia lirica
  • Capitolo VII: La struttura autobiografica dei Canti
  • Capitolo VIII: L’io, le maschere autobiografiche e gli interlocutori
  • Capitolo IX: Elementi autobiografici nei Canti
  • Tavola delle abbreviazioni e bibliografia

← 10 | 11 → Introduzione

I Canti di Giacomo Leopardi rappresentano un momento fondamentale per la letteratura, non solo nell’Ottocento e non solo in Italia: la poesia e il pensiero, legati indissolubilmente dalla parola leopardiana, hanno attraversato i secoli e continuano ad offrire spunti innumerevoli a chiunque vi si avvicini. Alcune poesie, le più celebri, riecheggiano in una sorta di memoria collettiva scolastica: gli ultimi versi dell’Infinito, l’esordio del Canto notturno, il congedo del Sabato del villaggio. L’approccio è però spesso frammentario e idealizzato, e produce un’impressione di staticità. Inoltre, la predilezione di molti critici per gli idilli e i canti pisano-recanatesi ha relegato la seconda metà del libro in un limbo poetico, come se Leopardi fosse morto a trent’anni invece che a trentanove, come se l’ultimo decennio della sua opera non corrispondesse con l’idea luminosa delle liriche della sua giovinezza.

Quando mi sono riavvicinata ai Canti all’università, la lettura continuata e i costanti confronti tra i testi hanno fatto emergere un aspetto che non mi aveva mai colpita prima. La raccolta poetica mi è apparsa nella sua unità, con un’incredibile forza narrativa: la voce nostalgica e insieme perentoria delle Canzoni, il ripiegamento intimo, quasi ferito, degli idilli, l’addio alla poesia seguìto dallo slancio del Risorgimento, l’appassionata e infelice storia d’amore del ciclo di Aspasia, la feroce disillusione della Ginestra, l’ambiguità dei testi conclusivi, incentrati sulla morte dell’io. I Canti mi sembravano insomma raccontare una storia personale, la storia di una vita, narrata con l’alternarsi di entusiasmo e delusione, desideri e rimpianti. Non c’erano poesie più meritevoli di altre, perché tutte erano altrettanto necessarie al racconto, tutte attingevano alle esperienze dell’io, dalle illusioni giovanili fino alla lucidità e alla morte. Si può quindi applicare ai Canti di Leopardi ciò che egli stesso aveva sostenuto a proposito del Canzoniere di Petrarca: che la raccolta poetica è avvincente, e si legge con piacere, come e più di un romanzo.

Questo lavoro, guidato e spesso riorientato grazie ai numerosi suggerimenti della professoressa Terzoli, mi ha offerto l’occasione di indagare la dimensione autobiografica della raccolta, studiando i Canti anche grazie al filtro dell’analisi di altre opere leopardiane. Il lavoro è per questo motivo ← 11 | 12 → diviso in due parti: nella prima, che comprende i primi cinque capitoli, ho raccontato il progressivo avvicinamento di Leopardi alla scrittura autobiografica. La seconda parte del lavoro si occupa invece di mostrare la natura autobiografica dei Canti, attraverso prospettive complementari.

Il primo capitolo, intitolato Leopardi, autobiografo adolescente, ricostruisce il contesto biografico e letterario che ha visto il giovane Giacomo Leopardi, spinto dal desiderio di gloria, dalla precoce esperienza della malattia e quindi dal presentimento di una morte imminente, oltre che dal clima familiare soffocante, a lasciare una traccia di sé. L’amicizia epistolare con Pietro Giordani sembra costituire un ulteriore elemento che rafforza in Leopardi la coscienza delle proprie capacità e lo spinge a riflettere sul senso della vita, come si legge dai primi appunti dello Zibaldone. Fin dagli scritti di questi anni appare tuttavia evidente la timidezza leopardiana nell’assumersi la paternità delle proprie composizioni; questo aspetto si ritrova, alcuni anni più tardi, negli abbozzi di romanzo autobiografico che l’autore non riuscirà mai a portare a termine, forse proprio per l’eccessiva trasparenza del genere.

Nel secondo capitolo, Modelli di autobiografia in prosa, ho preso in considerazione due autobiografie emblematiche cui Leopardi si è ispirato per ideare la propria vagheggiata «storia di un’anima»: les Confessions di Jean-Jacques Rousseau e la Vita di Vittorio Alfieri. Oltre a questi autorevoli esempi, si ravvisa l’importanza del romanzo foscoliano Ultime lettere di Jacopo Ortis, che influenza la prosa autobiografica leopardiana, ma anche la struttura e alcuni nuclei narrativi presenti nei Canti.

Il terzo capitolo, Prima dell’autobiografia lirica: progetti di romanzi autobiografici, presenta l’analisi dei molteplici tentativi in prosa, abbandonati da Leopardi a diversi gradi di compiutezza stilistica, che costituiscono gli abbozzi di romanzo autobiografico, stesi tra il 1818 e il 1825. Il capitolo successivo: L’abbandono del romanzo autobiografico in prosa, indaga i possibili motivi che hanno condotto il giovane scrittore a rinunciare al progetto, e ad affidare invece al linguaggio poetico il racconto della sua vita.

Nel quinto capitolo, parallelo al secondo e intitolato Modelli di autobiografie liriche, mi sono invece chinata sulla struttura e sui temi che caratterizzano alcuni «canzonieri» italiani, dai Rerum vulgarium fragmenta di Petrarca alle Poesie di Foscolo, passando per le Rime del Casa e di Alfieri. Dalla lettura si evince quanto Leopardi, incaricato di commentare la raccolta petrarchesca e di compilare la Crestomazia poetica durante gli anni successivi all’abbandono del progetto dell’autobiografia in prosa, si sia ← 12 | 13 → interessato alla dimensione narrativa di queste autobiografie liriche e abbia tratto ispirazione per la raccolta poetica che andava formandosi.

Il sesto capitolo, La storia dei “Canti” verso l’autobiografia lirica, racconta le vicende editoriali del libro dalla prima edizione, nel 1831, a quella, postuma, del 1845. Gli incrementi progressivi di testi, i tagli, l’evoluzione dell’apparato dedicatorio e le modifiche ai titoli mostrano il costante lavoro di Leopardi sulla raccolta, le cui caratteristiche sono sempre più simili a quelle di un «canzoniere».

Nel settimo capitolo, intitolato La struttura autobiografica dei “Canti”, mi sono soffermata sulle liriche che Leopardi ha spostato rispetto alla cronologia di composizione, creando così delle zone particolarmente rimaneggiate, in cui la dimensione narrativa è definita dalla disposizione dei testi. Dalla lettura delle poesie emerge inoltre l’assenza di censura, che invece aveva caratterizzato gli abbozzi in prosa: nei Canti Leopardi parla della vita e della morte, dell’amore e della delusione, senza la reticenza palesata negli abbozzi in prosa. Il genere lirico può quindi raccontare la storia di una vita, o piuttosto la «storia di un’anima», scegliendo di volta in volta il linguaggio appassionato del sentimento, il tono canzonatorio del sarcasmo o quello, funebre, del disincanto, senza però sancire l’identità tra l’autore e l’io lirico.

L’ottavo capitolo, L’io, le maschere autobiografiche e gli interlocutori, presenta i personaggi che il poeta, all’interno dei Canti, sceglie come proprie proiezioni autobiografiche (Simonide, Bruto, Saffo, Consalvo, il pastore errante) o come destinatari (Carlo Pepoli e Gino Capponi, Silvia e Nerina); mentre nell’ultimo capitolo, intitolato Elementi autobiografici nei “Canti”, ho analizzato altri aspetti inerenti l’autobiografia quali l’evoluzione della personalità dell’io lirico, la dimensione della memoria, lo stile quale testimonianza di fedeltà nei confronti della propria storia.

Le riflessioni dello scrittore nell’epistolario e del filosofo nello Zibaldone, le considerazioni del commentatore di Petrarca e del compilatore della Crestomazia convergono così, come per associazione, verso la raccolta poetica, che racconta, rielabora ed esalta liricamente l’esistenza di un uomo, prima che di un poeta. È questo l’aspetto che più tocca alla lettura dei Canti: l’autenticità dell’io, la sua nudità di fronte alle emozioni e al dolore, il suo disperato bisogno di riconoscimento e d’amore, il suo congedo dalle illusioni del passato e, infine, dalla vita.

La storia di Leopardi, contrariamente alle apparenze, non si realizza accostando cronologicamente i testi: l’intenso lavoro di rimaneggiamento dell’indice, gli spostamenti, i tagli, le modifiche alle liriche e ai titoli ← 13 | 14 → mostrano quanto per il poeta la dimensione narrativa fosse centrale nella costruzione globale del libro. Ad ogni livello, e fino alla morte di Leopardi, i suoi interventi sembrano voler rafforzare la natura autobiografica della raccolta e renderla sempre più esplicita.

Al fallimento del romanzo in prosa, tante volte abbozzato e mai compiuto, risponde la perfetta riuscita dei Canti, che si completano ad ogni edizione, fino a quella del 1845, in cui il Vesuvio fiammeggia sull’umanità. A margine, già postuma, la voce dell’io si leva, amareggiata e beffarda, nella contemplazione delle macerie. Leopardi è morto, ma ancora ci parla, ancora si indigna, si racconta, cerca una consolazione effimera, il profumo di un fiore cresciuto sulla lava. Anche quando tutto è finito, la sua poesia sopravvive, per continuare a raccontare con sincerità e passione l’unica vera storia della sua anima.

Bellinzona, novembre 2014

← 14 | 15 → I

Leopardi, autobiografo adolescente

Io ho grandissimo, forse smoderato e

insolente desiderio di gloria.1

La propensione di Leopardi per la scrittura autobiografica è stata analizzata nel tempo da molti critici, fino a diventare un punto di riferimento costante nell’esegesi delle opere. Non intendo ribadire la presenza dell’uomo Leopardi nei testi, ormai ovvia; in questo lavoro ho invece voluto seguire il percorso che ha condotto l’autore verso un’autobiografia progressiva, passando dai primi abbozzi in prosa fino agli esiti lirici, riconoscibili nella struttura e nei contenuti dei Canti. Per giungere all’ultimo risultato di questo complesso procedimento è necessario ricostruire le prime tappe e capire le motivazioni che hanno spinto Leopardi, fin dalla sua giovinezza, a misurarsi con la scrittura autobiografica. In seguito sarà possibile valutare le cause dell’abbandono del progetto, iniziato nel 1819 e protratto fino al 1825, di comporre un romanzo autobiografico, sulla scia del Werther e dell’Ortis. Solo a questo punto, a partire dal 1828, dopo il commento al Canzoniere petrarchesco e la compilazione della Crestomazia poetica, quasi contemporaneamente al distacco operato nei confronti dello sconfinato diario-Zibaldone, Leopardi sembra dirigere la «storia di un’anima» verso una scrittura poetica. Quest’autobiografia in versi sarà rielaborata dalle modifiche che intervengono nelle edizioni successive dei Canti fino alla raccolta, postuma, in cui si raccolgono le ultime liriche e si concludono la vita e la sua narrazione.

L’approccio ai testi che ho privilegiato è stato quello analitico e comparativo, anche se, naturalmente, non è stato possibile prendere in considerazione la traboccante produzione leopardiana. Tuttavia, poiché i Canti, in quanto autobiografia lirica, derivano dalle riflessioni e dalle sperimentazioni precedenti, ho cercato di far dialogare con la poesia anche Zibaldone e lettere, abbozzi autobiografici in prosa, alcune Operette e i Pensieri. Fondamentale si è rivelato il confronto di Leopardi con i modelli preesistenti, ← 15 | 16 → sia per l’autobiografia in prosa sia per quella in versi, che fa emergere l’ambivalenza dell’autore nel riconoscere le proprie fonti. Grazie a una prospettiva più ampia è quindi possibile misurare la vastità e la complementarità del progetto autobiografico di Leopardi, che tocca a vari livelli interpretativi tutte le sue opere, ma si concretizza soltanto nei Canti.

Giacomo Leopardi inizia a scrivere abbozzi di romanzi autobiografici durante l’adolescenza: il primo testo di natura personale, il Diario d’amore, è datato dicembre 1817, gli Abbozzi della Vita di Lorenzo Sarno risalgono al 1819. Ma Leopardi è uno scrittore precoce e prima di cimentarsi con l’autobiografia si occupa di poesia, tragedie, saggi filologici e traduzioni. La prima prova poetica, del 1809, è un sonetto intitolato La morte di Ettore scritto dopo la lettura dell’Iliade; alcuni anni più tardi un altro sonetto celebrerà l’entusiasmo per la Vita di Vittorio Alfieri. La scrittura, per il giovane recanatese, è quindi inizialmente luogo di emulazione e desiderio di gloria. L’ambizione richiede però indipendenza: a partire dal 1812 Giacomo, istruito insieme ai fratelli dal precettore, il «vermiglio, grasso e florido / pedante»2 don Vincenzo Diotallevi, «si sottrae a ogni insegnamento per allargare da solo i propri orizzonti culturali»3 e linguistici, dato che imparerà il francese, il latino, il greco e l’ebraico.

Questa maggiore autonomia si riconosce anche nella vastità dei progetti letterari giovanili. La prima pubblicazione, l’Inno a Nettuno, è una falsa traduzione dal greco del maggio 1816: «un componimento poetico originale, che il Leopardi, tuttavia, finge traduzione italiana di un fantomatico (e naturalmente antico) testo greco. Non solo: per accrescere la veridicità della propria finzione, la correda pure di una lunga teoria di note erudite».4 Il testo è intriso di riferimenti mitologici; il solo riferimento al poeta è anonimo e chiude l’inno con un auspicio tradizionale: «O nume salve, e con benigna mente / proteggi i vati che de gl’inni han cura».5 Se Leopardi, appena diciassettenne, non osa ancora rivendicare la paternità del testo, non si trattiene dal sollecitare il sostegno del dio e auspicare la sua protezione, inserendosi tra i «vati» in chiusa al poema. Anche le Odae adespotae pubblicate poco dopo sono il risultato di una finzione letteraria: falsi in greco antico e latino che Leopardi, nelle note al testo, attribuisce ← 16 | 17 → a Anacreonte.6 Le intenzioni del poeta sono però esplicitamente rivelate nell’Annotazione, contenuta in un «cartellino autografo inserito nell’esemplare a stampa».7 Qui Leopardi afferma, attraverso un abile rovesciamento di ruoli: «Dovechè i traduttori si studiano di parer originali, io doveva, essendo originale, studiarmi di parer traduttore».8 Dietro al gioco di parole si manifesta una competizione tra autori e traduttori, che si sovrappongono e sembrano consentire interessanti e «originali» margini di scrittura.

Le prime opere pubblicate dal giovane autore sono quindi presentate come traduzioni. Un documento importante per valutare questo aspetto è la lettera a Pietro Giordani del 30 maggio 1817. In essa, parlando dell’Inno a Nettuno a colui che è rapidamente diventato suo amico e mentore, Leopardi si identifica con Michelangelo:

Innamorato della poesia greca, volli fare come Michel Angelo che sotterrò il suo Cupido, e a chi dissotterrato lo credea d’antico, portò il braccio mancante. E mi scordava che se egli era Michel Angelo io sono Calandrino; oltreché la stretta necessità d’imitare, o meglio di copiare e di rimuovere dal componimento l’aria di robusto e originale, perché come un velo rado rado, anzi una rete soprapposta all’immaginario testo, ne lasciasse vedere tutti i muscoli e i lineamenti e in somma lo lasciasse pressoché nudo a fine d’ingannare, m’impastoiò e rallentò per modo la mente, che senza dubbio io ho fatto tutt’altro che poesia.9

L’autore afferma di aver compiuto la stessa operazione di Michelangelo in ambito poetico: l’Inno a Nettuno e le Odae adespotae sono falsi antichi che dimostrano il valore artistico del poeta, poiché non sfigurerebbero accanto a opere autenticamente classiche. È interessante che Leopardi scelga di misurarsi con un artista del valore di Michelangelo, celandosi appena dietro alla falsa modestia e al riduttivo «Calandrino»: questo dimostra la percezione di sé e l’ambizione del giovane scrittore. Ma mi sembra particolarmente significativo il fatto che Leopardi abbia evocato uno scultore invece di un poeta, come a suggerire una parentela stretta tra il mondo delle arti figurative e la concezione leopardiana della scrittura, in particolare di quella poetica, la quale acquista uno spessore ulteriore, diventando una realtà tangibile, non solo concettuale. La fisicità del testo emerge da questo ← 17 | 18 → confronto, che mostra il valore attribuito da Leopardi alla traduzione: quasi un lavoro di scalpello, per coprire di un velo trasparente il corpo «nudo» e rendere visibili i suoi meccanismi interni.

Questa, nelle lettere di Leopardi, è l’unica occorrenza relativa a Michelangelo, il quale ritorna però nello Zibaldone:

È curioso che si riprenda (dagli stranieri particolarm.) Michelangelo per aver troppo voluto dimostrare la sua scienza anatomica nelle scolture, e si dia per regola di nasconder sempre questa scienza nell’arte dello scolpire o del dipingere, ed esser meglio ignorarla affatto che ostentarla (come si dice, mi pare, di Raffaello, che non si curò di studiarla); e che frattanto gli stranieri massimam. non sieno mai così contenti come quando hanno inzeppato le loro poesie di tecnicismi, di formole, di nozioni astratte e metafisiche, di psicologia, d’ideologia, di storia naturale, di scienza, di viaggi, di geografia, di politica, e d’erudizione, scienza, arte, mestiero d’ogni sorta. E mentre non vogliono l’erudizione antica, lodano e abusano vituperosamente della moderna.10

Nuovamente, evocando la figura e le opere di Michelangelo, il giovane Leopardi si mostra interessato alla dimensione scientifica e plastica della sua arte; inoltre la scultura è paragonata alla poesia e stabilisce un legame con il mondo antico. Solo grazie a questa seconda annotazione si comprende appieno il ruolo dello scultore rinascimentale per Leopardi in questi anni di autoformazione letteraria: Michelangelo è un modello di artista che studia e rispetta l’uomo nella sua anatomia, così come la poesia, attraverso «l’erudizione antica» deve mostrare l’armonia del testo originale o, se non esiste, inventarlo. Come si vedrà più avanti, in particolare nel settimo capitolo, la traduzione dai classici, vera o falsa che sia, è un aspetto fondamentale nell’approccio leopardiano alla scrittura, e influenzerà anche l’evoluzione dei Canti. Non bisogna infatti dimenticare che anche la traduzione, come l’erudizione, rappresenta per l’autore: «un’esperienza precocissima (Leopardi traduce l’Ars poetica di Orazio a tredici anni, e il suo primo saggio filologico data dell’anno seguente)».11

Le altre opere precedenti il 1817 sono perlopiù di carattere scientifico, come la Storia dell’astronomia del 1813 e il Saggio sopra gli errori popolari degli antichi del 1815. In altri casi si tratta ancora di traduzioni, questa volta reali: il Saggio di traduzione dell’Odissea, il primo libro dell’Odissea, il secondo libro dell’Eneide che, spedito da Leopardi a Pietro Giordani, ← 18 | 19 → suggellerà l’inizio di una lunga e importante amicizia su cui tornerò più avanti. I «versi puerili» rivelano, quanto a loro, moltissimi spunti d’ispirazione storica, biblica o familiare, soprattutto dedicati a genitori e fratelli.

Di creazione più personale si può invece definire un testo poetico della fine del 1816 che troverà spazio nei Canti a partire dal 1835, benché in larga parte modificato e tagliato. Si tratta della Cantica Appressamento della morte, concepita durante una malattia agli occhi, contesto che ha probabilmente influenzato il tono e i contenuti funebri, fin dall’epigrafe, di Vittoria Colonna: «Certi non d’altro mai che di morire». Si avverte un contatto tra l’esperienza vissuta dall’autore in quello stesso periodo e i sentimenti espressi dall’io lirico: infatti, secondo Genetelli, la situazione di Leopardi ricorda «da vicino l’ultimo canto dell’Appressamento della morte, in cui il poeta si abbandonava ad un lamento sulla propria cruda sorte, che lo condannava a morire, consapevole della miseria del mondo, ma non di esso esperto».12 Propongo di séguito un passo del componimento, tratto dall’attacco del Canto quinto:

Dunque morir bisogna, e ancor non vidi

venti volte gravar neve ‘l mio tetto,

venti rifar le rondinelle i nidi?

Sento che va languendo entro mio petto

la vital fiamma, e ‘ntorno guardo, e al mondo

sol per me veggo il funeral mio letto.

E sento del pensier l’immenso pondo,

sì che vo ‘l labbro muto e l’ viso smorto,

e quasi mio dolor più non ascondo.

Poco andare ha mio corpo ad esser morto.

Details

Pages
342
Year
2015
ISBN (PDF)
9783035108477
ISBN (ePUB)
9783035193855
ISBN (MOBI)
9783035193848
ISBN (Softcover)
9783034316439
DOI
10.3726/978-3-0351-0847-7
Language
Italian
Publication date
2015 (May)
Keywords
Giacomo Leopardi Canti Ottocento Poesia Autobiografia Letteratura italiana
Published
Bern, Frankfurt am Main, Berlin, Bruxelles, New York, Oxford, Wien, 2015. 342 p.

Biographical notes

Fanny Capizzi (Author)

Laureata in lettere all’Università di Ginevra, dal 2006 insegna italiano e francese nelle scuole superiori del Canton Ticino. Ha svolto il presente lavoro di dottorato presso l’Università di Basilea, tra il 2010 e il 2014.

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