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Memoria storica e postcolonialismo

Il caso italiano

by Martine Bovo Romoeuf (Volume editor) Franco Manai (Volume editor)
©2015 Edited Collection 355 Pages
Series: Moving Texts / Testi mobili, Volume 7

Summary

Questa raccolta di saggi si propone di dare un contributo alla discussione attuale sul discorso postcoloniale italiano, cioè quell’insieme di testi incentrati in modo critico sulla Storia coloniale in generale e su quella italiana in particolare. Si tratta di una produzione che, attraverso diversi mezzi di comunicazione, dalla letteratura al cinema, dal teatro al fumetto, dalla televisione ai quotidiani, dalle riviste a internet, ha esplorato percorsi nuovi e si è espressa in svariati generi, spesso mescolandoli: dalle autobiografie alle biografie, dal romanzo storico o neostorico al realismo magico, dal romanzo giallo o noir a quello d’avventura o d’appendice, dalla poesia alla canzone, dal film al documentario, dal fumetto in serie al graphic novel. Allargando lo sguardo al colonialismo interno, con i casi esemplari della Sardegna e della Sicilia, il volume intende dare conto, attraverso la concordia discors dei vari saggi, della direzione che sta prendendo la ricerca oggi in campo postcoloniale.

Table Of Contents

  • Copertina
  • Titolo
  • Copyright
  • Sul curatore
  • Sul libro
  • Questa edizione in formato eBook può essere citata
  • Indice
  • Introduzione (Martine Bovo Romœuf & Franco Manai)
  • Gramsci, Said. Colonialismo, postcolonialismo: L’Occidente e le rivoluzioni islamiche del maggio 2011 (Mario Domenichelli)
  • “Africa, bel suol d’amore”: La memoria, la storia, il romanzo (Luciano Marrocu)
  • Note su Conrad e il postcolonialismo italiano (Franco Manai)
  • Vers un canon postcolonial multiculturel: Les cas paradigmatiques de Gabriella Ghermandi et Martha Nasibù (Martine Bovo Romœuf)
  • Memoria e métissage nel romanzo italiano postcoloniale e della migrazione (Giuliana Benvenuti)
  • Come il colonialismo ha fatto gli italiani: Timira tra storiografia e letteratura (Valeria Deplano)
  • Riflessioni a margine del rapporto storia- letteratura: Il (post)coloniale italiano tra forclusione e afanisi narrativa (Gabriele Proglio)
  • Fra metropoli e colonia: Rappresentazioni letterarie degli italiani “insabbiati” (Daniele Comberiati)
  • Da una sponda all’altra del Mediterraneo: Sguardi incrociati sull’esodo italo- libico (Maurice Actis- Grosso)
  • Alcuni elementi per la definizione letteraria di un postcoloniale sardo (Margherita Marras)
  • Un “oriente” domestico: Ipotesi per una interpretazione postcoloniale della letteratura siciliana moderna (Matteo Di Gesù)
  • « Più turista che fascista »: Mémoire coloniale et figure du soldat dans le cinéma italien contemporain (Marie- France Courriol)
  • Le rose del deserto: La quarta sponda fra arditismo e colonialismo straccione (Domenico Guzzo)
  • Adwa e i suoi figli: Etiopia anti- coloniale e post- coloniale nel cinema di Hailé Gerima (Lorenzo Mari)
  • La costruzione del sé e dell’altro. Il caso del postcolonialismo italiano nel graphic novel: Una lettura di Etenesh. L’odissea di una migrante e Ilaria Alpi. Il prezzo della verità (Cristina Greco)
  • Quando il genere noir sposa il postcoloniale (Giuliana Pias)
  • Notizie biografiche
  • Volumi pubblicati nella collana

← 8 | 9 → Introduzione

Martine BOVO ROMŒUF & Franco MANAI

Questa raccolta di saggi si propone di dare un contributo alla discussione attuale sul discorso postcoloniale italiano, cioè quell’insieme di testi incentrati in modo critico sulla storia coloniale in generale e su quella italiana in particolare. A tale discorso hanno contribuito sia opere di scrittori italiani di origine sia opere di nuovi italiani, cioè scrittori scolarizzati in lingue diverse e introdotti all’italiano in un secondo momento, come anche opere di italiani di prima generazione, nati da genitori stranieri e cresciuti in Italia nella coesistenza di due culture e di due lingue – e a volte più di due. Si tratta di una produzione che, attraverso diversi mezzi di comunicazione, dalla letteratura al cinema, dal teatro al fumetto, dalla televisione ai quotidiani, dalle riviste a internet, ha esplorato percorsi nuovi e si è espressa in svariati generi, spesso mescolandoli: dalle autobiografie alle biografie, dal romanzo storico o neostorico al realismo magico, dal romanzo giallo o noir a quello d’avventura o d’appendice, dalla poesia alla canzone, dal film al documentario, dal fumetto in serie al graphic novel.

Gli studi in questo campo hanno raggiunto una massa critica a partire dalla quale appare necessario un nuovo approccio. Non abbiamo la pretesa di fondarlo qui e ora, considerando la complessità e la varietà delle problematiche che esso comporta. Riteniamo che sia in questa fase importante, in via preliminare, ed è questa l’ambizione di questa raccolta di saggi, raccogliere osservazioni, intuizioni, visioni, tasselli che possano servire a ricostruire una realtà sfaccettata che sembra difficile da afferrare nella sua totalità.

Il filone italiano delle scritture postcoloniali si può considerare aperto con Tempo di uccidere di Flaiano del 1947; tuttavia è solo negli anni Novanta che si è pienamente dispiegata la vitalità di questo nuovo orientamento in concomitanza con la presenza sul suolo nazionale di un numero in rapida crescita di migranti dai diversi sud del mondo (Lombardi-Diop & Romeo 2014b: 12–14). Da Pap Khouma (1990) a Wu Ming 2 & Antar Mohamed (2012) il racconto postcoloniale ha esplorato percorsi nuovi, rivedendo ← 9 | 10 → gli schemi del romanzo storico tradizionale, inglobando tecniche provenienti da altri generi e media (romanzo giallo, noir, d’avventura, d’appendice, cinema, televisione, giornalismo, internet) e arricchendosi grazie alle produzioni letterarie dei migranti, a loro volta impegnate nell’esplorazione della lingua e cultura italiana dall’ottica di chi la avvicina dall’esterno.

Per cogliere la problematicità di una rappresentazione complessiva del discorso postcoloniale italiano può essere utile concentrare l’attenzione sul rapporto tra le scrittrici e gli scrittori migranti, ciascuno con una propria storia culturale e letteraria alle spalle, da una parte e, dall’altra, la tradizione letteraria italiana nella quale questi scrittori cercano di inserirsi. Si tratta per molti motivi di un rapporto molto complesso e necessariamente confuso.

Uno dei generi letterari più battuti dalla narrativa postcoloniale e migrante è il romanzo neostorico (Benvenuti 2012) dal quale, come a suo tempo da quello storico, viene una sfida alla storiografia come produzione scientifica. Quest’ultima, fondata su una metodologia di acquisizione dei documenti e di selezione dei dati, e quindi su un processo di ricostruzione controllato all’origine dai produttori del discorso e controllabile in ogni momento dai suoi recettori, non ammette che la conoscenza storica si possa ricavare anche da altre pratiche più leggere ed esposte all’arbitrio individuale, come il romanzo o le memorie. Una cosa è se la storiografia scientifica si serve della letteratura, ritenendola, in casi particolari, fonte degna di fiducia, altra cosa è se la letteratura si presenta con la pretesa di essere presa per storia o di fare direttamente storia.

Da parte delle scritture migranti questa sfida si estende all’omogeneità di una letteratura nazionale che affonda le sue radici nella storia e nella costruzione della lingua italiana in secoli di scrittura e di tradizioni condivise (Benvenuti 2012).

La grande letteratura e la storiografia scientifica dei secoli XIX e XX nate come elementi sovrastrutturali della civiltà borghese, presuppongono una visione del mondo umanistica, in cui i valori dell’individuo come microcosmo riproducono in sé l’infinita complessità e l’ordine divino del macrocosmo. La lingua, strumento umano per eccellenza nella ricostruzione spirituale del mondo, viene studiata, strutturata, approfondita, elaborata con passione e intensità. Al romanzo spetta la riflessione sulla vita interiore e sulla complessità sociale, mentre la storia, basandosi su un metodo vicino a quello delle scienze naturali, ricostruisce verità oggettive su documenti e fonti certe. L’umanità si identifica con quella prodotta ← 10 | 11 → dalla cultura europea e la storia universale è quella raccontata dal punto di vista europeo.

Questi sono i limiti di un’epoca e di una concezione del mondo che hanno prodotto grandi capolavori, grandi ideologie, grande progresso scientifico e sociale, ma non la capacità di entrare davvero in comunicazione con tutto ciò che si presentasse come diverso, come non “europeo”.

Noi siamo eredi di quelle forme di pensiero, di quella concezione di letteratura e di storia, ma non possiamo più accettare le premesse ideologiche su cui essa si basa, così come non possediamo più quella formazione umanistica che rappresenta la vita interiore di quella letteratura e di quella storiografia. Non possediamo più la certezza che una storiografia scientifica sia in grado di fornirci una verità oggettiva, o forse neanche che una verità oggettiva esista. Non possediamo la certezza che la ricostruzione di una guerra sulla base di documenti sia più vera di un racconto dei sopravvissuti. La superiorità epistemologica della storia sulla memoria e sulla letteratura è messa in forse.

Allo stesso tempo viene posta in dubbio la funzione sociale della storiografia di stampo tradizionale, la cui visione appare spesso unilaterale, mentre hanno ormai acquisito piena dignità epistemologica tutte le prospettive da cui è possibile vedere la realtà, a cominciare da quelle dei vinti e dei popoli colonizzati. La storiografia dei vincitori non è più veritiera di quella dei vinti, ma è spesso l’unica che esiste. Non avendo una storiografia i vinti, i colonizzati, esclusi dai circuiti della scienza, della credibilità, delle istituzioni, dell’autorità accademica, tendono ad avvalersi di altri canali, a loro vieppiù accessibili nell’era della globalizzazione, come il romanzo o l’autobiografia.

Anche il nostro rapporto con la lingua è coinvolto in questa crisi. Molti lettori di oggi non sanno più apprezzare quell’elaborazione della lingua che caratterizzava in Europa la letteratura “alta”, e anzi generalmente la percepiscono addirittura come fastidiosa pedanteria. Abbondano dati statistici che dimostrano il progressivo impoverimento linguistico e culturale degli italiani negli ultimi 30 anni, non solo per il dilagare dell’analfabetismo funzionale negli strati di cultura medio bassa, ma anche per l’abbassamento del livello culturale sia degli studenti universitari sia dei laureati e dei dottori di ricerca.1 La certezza che la lingua italiana sia soggetta a ← 11 | 12 → un processo di impoverimento lessicale e sintattico nell’uso quotidiano e che questo fenomeno non possa lasciare indenne la letteratura era già di Pasolini e di Calvino negli anni ’70.2

Umberto Eco, sempre sensibile ai cambiamenti socio-culturali, nei primi anni Novanta nota come il pubblico dei lettori contemporanei stia diventando sempre più estraneo al “patto finzionale” tra autore e lettore (Eco 1994: 92). Secondo Giuliana Benvenuti egli intende più in generale segnalare che

il suo pubblico, come quello di ogni altro scrittore contemporaneo, è in minima parte composto – diversamente da quanto accadeva negli anni Sessanta e Settanta – da lettori che condividono con lo scrittore una formazione umanistica, e che dunque sono in grado di riconoscere le allusioni, le citazioni, i modelli della tradizione mobilitati entro opere costruite come ipertesti. (Benvenuti 2012: 35)

In altri termini, il pubblico di massa si va facendo sempre più refrattario alle elaborazioni linguistiche della tradizione letteraria italiana, e non più veramente in grado di comprendere, e tanto meno gustare la lingua colta.

Il pubblico, ovviamente, non è un’appendice secondaria della produzione letteraria, ma la sua ragione ultima, e ne determina la vita o la morte. D’altra parte gli autori e le autrici vivono sullo stesso pianeta:

Sono gli stessi scrittori, del resto, che ormai non sono più formati prevalentemente su una tradizione letteraria condivisa, e sono loro che non interpretano la scrittura come forma di trasmissione di una conoscenza sedimentata, né le attribuiscono un valore pedagogico e civile. (Benvenuti 2012: 35)

Da un lato dunque la tradizione letteraria italiana, con i suoi percorsi stilistici e la sua intertestualità nazionale, è un difficile metro di comparazione per attribuire diplomi di appartenenza letteraria, ma ← 12 | 13 → dall’altro esistono per gli scrittori migranti altre soglie più o meno visibili, più o meno segnalate, che si interpongono al riconoscimento letterario. Detto brutalmente, il colore della pelle è una di queste. Come affermano Cristina Lombardi-Diop e Caterina Romeo:

il lavoro di scrittori e scrittrici come Pap Khouma e Igiaba Scego, rispettivamente di origini senegalesi e somale, mette in luce il senso di disagio che gli italiani bianchi avvertono nel vedere la nerezza associata all’italianità. Di solito si ritiene che questi termini siano incompatibili e che pertanto si escludano a vicenda. Come vediamo in scrittori e scrittrici di prima e di seconda generazione, la critica a ciò che conferisce italianità è un nodo cruciale, in quanto l’italianità è apparentemente irraggiungibile per gli italiani neri precisamente perché l’appartenenza nazionale di solito viene concepita come l’essere caratterizzati da tratti specifici, tanto biologici quanto culturali, che non si possono semplicemente acquisire come conseguenza di una perfetta padronanza della lingua italiana e di un modo di vivere italiano. (Lombardi-Diop & Romeo 2014 b: 14)

Lombardi-Diop e Romeo con molta chiarezza mostrano la componente razziale e coloniale di un’identità italiana peraltro sempre convinta della propria innocenza, e impostano una serrata discussione sul significato del Risorgimento, che rileggono come espansione territoriale, e sul colonialismo interno che abita fin dalla sua fondazione l’“italianità” (Lombardi-Diop & Romeo 2014 b: 4–6).

Attraverso le opere letterarie postcoloniali vengono alla luce grovigli di problemi che si nascondevano tra le pieghe della coscienza e che fanno scricchiolare molti contrafforti epistemologici considerati fermi. Il colonialismo italiano emerge dalla nebbia in cui l’aveva no confinato non tanto la storiografia ufficiale quanto le pratiche discorsive dominanti, anche grazie ai travisamenti e ai silenzi della letteratura (Labanca 2005). Tuttavia nel porsi dell’attività letteraria postcoloniale come istanza conoscitiva capace di sostituire una ricostruzione oggettiva e controllata del passato è insita una minaccia. Forse è vero che, come sostiene Carlo Ginzburg, è stata la letteratura e in particolare il romanzo storico dell’Ottocento, da Balzac a Tolstoj, a suggerire agli storici di andare al di là della sequenza di eventi macroscopici, soprattutto guerre, di cui si erano sempre occupati, e rivolgersi a campi di indagine apparentemente marginali, come la vita quotidiana, il lavoro, le passioni (Ginzburg 2006: 107). Certo è anche vero che la crisi della storia oggi è legata a una crisi di senso, cioè di trascendenza e utopia. La storia «non appare ormai più in grado di sostenere alcun credibile programma di emancipazione collettiva» (Bodei 1995: 21).

← 13 | 14 → Se la storia perde il suo senso, la sua direzione, anche la sua narrazione perde cogenza e tensione interna. Si disperde. Il suo peso epistemologico non è più sufficiente a assicurare la comprensione del passato e a offrire strumenti per la previsione del futuro. Infine essa diviene futile gioco, senza spessore etico. Tuttavia, «dato che nessuno riesce a vivere una realtà totalmente insensata, quando del passato prossimo rimangono solo macerie sparse, l’identità è disposta a rinnovarsi ricomponendosi in figure fantasiose o miti» (ivi: 35). Poiché con la storia è in gioco la ricostruzione di un’identità continua che lega il proprio presente al proprio passato, fondando quindi la comprensione di sé come individuo e come società, prescinderne non è dato. Al venir meno della sua funzione sociale, altri elementi si affacceranno a prenderne il posto, meno razionalmente controllabili.

La storiografia ufficiale sembra dibattersi tra l’esigenza di mantenere la sua pretesa di scientificità e di oggettività, e le spinte centrifughe provenienti dalle critiche alla razionalità occidentale e dalle proposte di visioni alternative provenienti dalle culture altre. Ciò non fa meraviglia se pensiamo che la storia, come scrittura accertata e certificata del passato, è nata con Tucidide per legittimare l’imperialismo ateniese e dimostrare la superiorità dei greci sui barbari (Gallerano 1995b: 22). La storia universale sul modello di Polibio, poi, si configura solo a partire dal fatto che l’universo mondo (di allora) era sotto il dominio romano (Bodei 1997: 21).

La storia in senso occidentale è sempre stata storia dell’Europa e, al margine, delle sue colonie. Essa nasce e muore con il colonialismo. La crisi della storia, la crisi del soggetto, la perdita di senso, coincidono con la perdita delle colonie. Nel momento in cui non è più sostenibile la superiorità culturale dell’Occidente sul resto del mondo e i vinti prendono la parola per esigere una revisione della storia, questa perde senso, per l’Occidente. Il lavorio del pensiero subalterno, delle femministe, degli intellettuali del sud del mondo e di quelli occidentali che criticano il colonialismo,3 scava ai fianchi la storia ufficiale. Il soggetto emergente dal sud del mondo ha un’urgenza impellentissima: quella di prendere la parola e essere ascoltato, definire e dare nomi, perché è sempre stato ascoltatore e ← 14 | 15 → oggetto di un linguaggio altrui, definito e costruito, come sostiene Said, dalle parole degli altri.

È dunque in questo affanno di parola che in tutto il mondo vengono prodotte opere di letteratura migrante. Scrittori e scrittrici a volte improvvisati si esprimono in lingue che spesso non dominano e hanno tuttavia la pretesa o la missione di ribaltare il racconto storico ufficiale, di illuminare gli angoli che quello lasciava oscuri. Il presentarsi alla ribalta di un nuovo sguardo sul passato, anzi di una molteplicità di sguardi, rende evidente il fatto che il passato, come dice Bodei, non è immutabile, ma può cambiare (Bodei in Vattimo 1990: 15). Questa mutabilità del passato però è pericolosa. «Se viene a mancare qualsiasi demarcazione tra ricostruzione obiettiva e trasfigurazione, qualsiasi manipolazione è valida» (Bodei in Vattimo 1990: 35). «La nuova storia culturale alle soglie del terzo millennio sembra perdersi nei mille rivoli della Alltagsgeschichte [storia del quotidiano] della microstoria, della storia delle mentalità, del genere, degli studi subalterni e postcoloniali, della storiografia della memoria» (Bondì 2012: 214).

L’emergere e l’affermarsi del discorso postcoloniale gioca dunque un ruolo di primo piano tanto nel precipitare della crisi del pensiero storiografico, quanto nell’individuazione dei percorsi conoscitivi che questa crisi ha reso possibili. Ci soffermeremo quindi in un primo tempo sugli sviluppi del complicato intreccio tra storia e letteratura allo scorcio del XX secolo, cioè del periodo che ha visto l’affermarsi del cosiddetto postmoderno e l’affacciarsi dei primi tentativi di un suo superamento. Ci concentreremo poi sul modo in cui in questa discussione si inserisce il discorso postcoloniale, al cui interno la dimensione “storica”, la narrazione tesa a proporre una sua versione della realtà passata, oltre che di quella contemporanea, ha una presenza assolutamente preponderante.

Sulla storia come oggetto di riscrittura si è cimentata la letteratura con grande successo di pubblico, dai Promessi Sposi al Nome della rosa, proponendo dei racconti tanto più graditi quanto più investiti di autorità storica, cioè di realtà. «Secondo Eco hanno maggiore possibilità di incontrare il plauso di un ampio pubblico quei libri che più indulgono nella confusione tra realtà e finzione» (Benvenuti 2012: 34). Su questo giocano anche quei generi di intrattenimento recenti che contendono con successo il mercato alla letteratura, costringendola ad adeguarsi: i diversi tipi di reality, le ricostruzioni semi documentarie, i servizi giornalistici travestiti da storie avventurose etc. Anche i vari revisionismi di matrice fascista pescano nel torbido giocando sul vuoto di codici interpretativi.

← 15 | 16 → Di fronte alla responsabilità che comporta assumere il passato come proprio, e il presente come reale, la dissoluzione di entrambi in un inafferrabile mondo di narrazioni e interpretazioni autoreferenziali offre un’egregia via di uscita. Il filosofo americano Richard Rorty nega alla storia l’autorità di fare affermazioni sulla realtà; essa può assolvere se mai un compito terapeutico (Rorty 1980: 5). Nella modestia dell’obiettivo epistemologico il pragmatismo americano non ha niente da invidiare al postmoderno, in cui il gioco di decostruzione del discorso portato all’estremo e la “debolezza” del pensiero diventano complici della dissoluzione della realtà e della nebulizzazione della storia. Quest’ultima diventa méta-récit, narrazione di narrazioni, infarcita di “favole per adulti”, grands récits, come Jean-François Lyotard definisce le speranze epocali o gli ideali sociali (Lyotard 1979). In tale contesto si dispiega l’analisi del discorso di Hayden White, che classifica tutti i generi narrativi in tre grandi categorie: romance, tragedia, commedia e satira. Tanto la narrativa di finzione quanto quella storica appartengono alla prima tipologia. Il contenuto della comunicazione si dà in primo luogo con la scelta della categoria formale in cui collocare il discorso: è attraverso le scelte formali che sia lo storico sia il romanziere esprimono il loro messaggio. La forma è il contenuto (White 2006). Così con un gioco di prestigio White fa scomparire nelle pieghe dell’analisi della narrazione la differenza tra racconto e realtà.

In questa operazione la letteratura, come ricostruzione e narrazione del passato, ma anche del presente, non si distingue dalla storiografia e sembrerebbe aver vinto la sua battaglia. Così non è; infatti, una volta neutralizzata la possibilità di parlare della realtà, non solo la storia ma anche la letteratura resta disarmata. La sua denuncia cade nel vuoto, o meglio nel caleidoscopio di immagini mutevoli e insignificanti con cui i media bombardano costantemente il pubblico. A chi giova la dissoluzione dei generi? La domanda di Carlo Ginzburg è più che legittima (Benvenuti 2012: 16).

La fine del colonialismo diretto ha provocato il crollo delle certezze occidentali (soggetto, storia, senso) facendo venir meno il loro fondamento invisibile, tuttavia non ha dato luogo all’emancipazione del sud del mondo, bensì a forme di colonialismo indiretto, il cui denominatore comune è la doppiezza linguistica, il divario tra l’azione reale e la sua descrizione a uso del pubblico. Esempi notissimi ne sono gli “aiuti per lo sviluppo”, la diffusione della “democrazia”, i contratti “bilaterali” di “libero” commercio, gli interventi militari “di pace”.

← 16 | 17 → È attraverso la cappa magica della narrazione di sé come qualcos’altro che il colonialismo, credendosi invisibile, prosegue la sua distruzione del mondo nell’epoca del postcolonialismo. In altre parole: il postcolonialismo altro non è che il colonialismo di sempre, cioè la rapina delle materie prime e della forza lavoro delle colonie a beneficio dei paesi colonizzatori, ma mascherato, per esempio, da “accordo bilaterale di commercio”. Se si prende in considerazione quest’ultimo caso, occorre riconoscere che si tratta di un mascheramento molto ben riuscito, capace di ingannare anche persone di assoluta onestà, democratici convinti e in perfetta buona fede. L’accordo bilaterale, infatti, si narra, racconta se stesso come accordo tra uguali, tra Paesi con gli stessi diritti, concluso per facilitare entrambe le economie e favorire gli interessi delle popolazioni coinvolte. Ciò che poi avviene nella realtà è del tutto irrilevante. Quasi nessuno lo viene a sapere, perché i media non riportano il numero dei contadini morti di fame o suicidatisi in conseguenza di tanta libertà di commercio. È la narrazione che conta.4

Nel momento in cui ogni narrazione è legittima quanto ogni altra, perché è stato reciso od oscurato il suo collegamento con la ← 17 | 18 → realtà, i soggetti subalterni hanno un bel gridare il loro punto di vista. La loro voce non riesce a sopraffare il brusio assordante delle infinite narrazioni che offuscano tanto il presente quanto il passato. Come dice ancora Bodei:

La lacuna del presente è anche questo senso di frustrazione, suscitato da uno spazio di complessità difficile da organizzare […] non credo che il senso globale della storia si sia semplicemente indebolito: direi che bisogna cambiare orientamento per inserirsi in questa nuova complessità, per non essere degli automi miopi […]. (Bodei in Vattimo 1990: 18)

Details

Pages
355
Year
2015
ISBN (PDF)
9783035265248
ISBN (ePUB)
9783035298710
ISBN (MOBI)
9783035298703
ISBN (Softcover)
9782875742568
DOI
10.3726/978-3-0352-6524-8
Language
Italian
Publication date
2015 (April)
Keywords
Colonialismo Orientalism migrazione Rivoluzioni islamiche del maggio 2011
Published
Bruxelles, Bern, Berlin, Frankfurt am Main, New York, Oxford, Wien, 2015. 355 p., 16 ill.

Biographical notes

Martine Bovo Romoeuf (Volume editor) Franco Manai (Volume editor)

Martine Bovo Romœuf è docente d’italiano e di letteratura contemporanea all’Università Bordeaux Montaigne e fa parte del Centro di ricerche GERCI dell’Università di Grenoble. Fra le sue pubblicazioni: Le devenir postmoderne. La sensibilité postmoderne dans les littératures italienne et portugaise (PIE Peter Lang 2013), L’epopea di Hora. La scrittura migrante di Carmine Abate, Frammenti d’Italia. Un autoritratto in forma narrativa. Franco Manai è docente di cultura italiana all’Università di Auckland in Nuova Zelanda e fa parte del Centro di ricerche GERCI di Grenoble. Ha pubblicato due monografie sulle letterature regionali della Sicilia e della Sardegna (Capuana e la letteratura campagnola e Cosa succede a Fraus? Sardegna e mondo nel racconto di Giulio Angioni) e diversi saggi su autori italiani e neozelandesi, da Niccolò Machiavelli a Carlo Goldoni, Fruttero & Lucentini, Emilio Lussu, Witi Ihimaera e Hone Tuwhare.

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