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Boom e dintorni

Le rappresentazioni del miracolo economico nella cultura italiana degli anni Cinquanta e Sessanta

by Inge Lanslots (Volume editor) Lorella Martinelli (Volume editor) Fulvio Orsitto (Volume editor) Ugo Perolino (Volume editor)
©2019 Edited Collection 286 Pages
Series: Moving Texts / Testi mobili, Volume 9

Summary

Cinquant’anni sono un segmento di tempo ragionevolmente collaudato per guardare indietro, nel tempo, senza il pericolo della nostalgia e senza il rischio di enfasi. Cinquant’anni ci separano dagli avvenimenti che gli autori di questo libro prendono in esame: il Sessantanove e poi, a ritroso, i fatti dell’anno precedente e quelli ancora prima, quando l’Italia si trova immersa dentro le trasformazioni della modernità. Nostalgia ed enfasi sono atteggiamenti nocivi allo sguardo dello studioso: la prima indulge verso un compiacimento emotivo che può finire nella retorica del come eravamo..., la seconda corre il pericolo di amplificare i dati, ingigantire gli esiti, falsificare la percezione. Entrambi i rischi si corrono quando si analizza un periodo felice e lo si mette soprattutto a confronto con un presente di minore spessore. Ma è un rischio da cui non sono stati toccati gli autori dei saggi radunati in questo volume. In nessuna pagina si avverte il sospetto del compiacimento e nemmeno l’ombra di una malinconica retrospettiva. Semmai è forte il tentativo di ricostruire un’epoca che ha i contorni del mito: ricostruirla settore per settore, dalla letteratura al cinema, dalla pubblicità alla comunicazione aziendale, dalla musica alla televisione, confermando una scelta di metodo che privilegia la dimensione politecnica del libro, il suo essere punto di convergenza di indagini sviluppate su forme e linguaggi diversi.

Table Of Contents

  • Copertina
  • Titolo
  • Copyright
  • Sull’autore
  • Sul libro
  • Questa edizione in formato eBook può essere citata
  • Indice del volume
  • Introduzione di Giuseppe Lupo
  • Scenari e Linguaggi
  • Accendi, il Boom è in televisione! (Andrea Bini)
  • Per un pugno di lire: il miracolo economico del western-spaghetti (Gian Piero Consoli)
  • Quando alla TV si disegnava: la lezione di Alberto Manzi e Non è mai troppo tardi (Tania Convertini)
  • La ricerca Letteraria
  • Note sulla ricerca poetica da Quarta generazione a «Officina» (Ugo Perolino)
  • La nevrosi ci divora: Berto, Il male oscuro e la società dei consumi (Maria Panetta)
  • «La possibilità di non obbedire». Prefigurazioni del miracolo economico nel Quaderno proibito di Alba de Céspedes (Francesca Irene Sensini)
  • Il boom economico italiano: Pasolini contro Volponi? (Tiziano Toracca)
  • Fortini e il boom: detonazioni da verificare (Mark Epstein)
  • Le 10 domande su Neocapitalismo e Letteratura di Alberto Moravia (Angelo Fàvaro)
  • Cinema e dintorni
  • La canzone d’autore tra Italia e Francia. Georges Brassens, Fabrizio De André, Dominique Grange (Lorella Martinelli)
  • Da Edipo a Narciso: note su Fellini e La dolce vita (1960) (Fulvio Orsitto)
  • Ridere tra le macerie: Lo svitato di Dario Fo e Carlo Lizzani e la difficile ricostruzione nella Milano degli anni Cinquanta (Gloria Pastorino)
  • Violenza, narrazione e miracolo economico ne I ragazzi del massacro di Scerbanenco (e nel film di Fernando Di Leo) (Roberto Risso)
  • Intellettuali e cinema post-coloniale nell’Italia del boom economico: Queimada (1969) di Gillo Pontecorvo (Monica Facchini)
  • “Ancora il Sessantotto?”: una lettura a fumetti (Inge Lanslots)
  • Postfazione
  • La contraddizione irrisolta. Modernità e arretratezza nell’Italia del boom (Leonardo Casalino)
  • Nota biografica sugli autori
  • Volumi pubblicati nella collana

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Introduzione di Giuseppe Lupo

Cinquant’anni sono un segmento di tempo ragionevolmente collaudato per guardare indietro, nel tempo, senza il pericolo della nostalgia e senza il rischio di enfasi. Cinquant’anni ci separano dagli avvenimenti che gli autori di questo libro prendono in esame: il Sessantanove e poi, a ritroso, i fatti dell’anno precedente e quelli ancora prima, quando l’Italia si trova immersa dentro le trasformazioni della modernità. Nostalgia ed enfasi sono atteggiamenti nocivi allo sguardo dello studioso: la prima indulge verso un compiacimento emotivo che può finire nella retorica del come eravamo…, la seconda corre il pericolo di amplificare i dati, ingigantire gli esiti, falsificare la percezione. Entrambi i rischi si corrono quando si analizza un periodo felice e lo si mette soprattutto a confronto con un presente di minore spessore. Ma è un rischio da cui non sono stati toccati gli autori dei saggi radunati in questo volume. In nessuna pagina si avverte il sospetto del compiacimento e nemmeno l’ombra di una malinconica retrospettiva. Semmai è forte il tentativo di ricostruire un’epoca che ha i contorni del mito: ricostruirla settore per settore, dalla letteratura al cinema, dalla pubblicità alla comunicazione aziendale, dalla musica alla televisione, confermando una scelta di metodo che privilegia la dimensione politecnica del libro, il suo essere punto di convergenza di indagini sviluppate su forme e linguaggi diversi. Nessun’epoca può diventare oggetto di verifica se ci si limita nello sguardo, ma ciò vale soprattutto per gli anni Sessanta, che in Italia hanno rappresentato non soltanto il periodo di maggiore trasformazioni antropologiche, ma l’appuntamento cruciale con la modernità. Qui sta il cuore del discorso e ogni cosa converge in essa. L’abbiamo attesa da secoli, l’abbiamo intuita nelle sue manifestazioni più velleitarie ed esaltanti (così ci è stata raccontata dai futuristi), l’abbiamo vagheggiata tra le due guerre, quando il dibattitto sul modello di vita urbano ha cominciato ad avere il sopravvento sulla fedeltà nei confronti di una condizione arcadica. Tutto ciò sarebbe rimasto nella dimensione di soglia se nel secondo dopoguerra, conclusa la fase di ricostruzione, non si fosse dischiusa la stagione che avrebbe portato nelle dimore della famiglia ← 11 | 12 → media frigoriferi, televisori, lavatrici. Non è detto che gli elettrodomestici e le automobili costituiscano il paradigma di questa modernità, ma ne sono sicuramente un tipo di manifestazione, probabilmente la più convincente nell’opinione generale, l’unica in grado di garantire un cambiamento nello stile di vita quotidiano. Gli anni del boom sono stati esattamente questo: benessere democratico che ha inciso tanto nei rapporti tra individuo e società quanto nei processi di formazione delle generazioni successive, a partire da quelle nate sotto il segno dei biscotti al Plasmon. Se il libro si fosse limitato a narrare dall’esterno tali mutamenti, avrebbe risposto solo parzialmente all’obiettivo di essere la fotografia del boom e dei suoi “dintorni”, come indica la seconda parte del titolo. Sono i dintorni, infatti, che rendono ben più persuasivo il progetto editoriale che lo sorregge: le ombre più che le luci, i rifiuti più che le adesioni. C’è stato – ed è innegabile – un miracolo economico che ha trascinato la popolazione media nell’incanto, ma accanto ad essa ha proliferato una intellighenzia che è passata dallo scetticismo al dissenso, per non dire all’avversione totale. Quasi per intero la categoria degli intellettuali ha preferito fermarsi a osservare dal proprio piedistallo, mostrando in larga parte un atteggiamento di fronda verso i segni di un consumismo che avrebbe finito per determinare un sentimento radicale di perdita. Il primo nome che viene in mente è quello di Pier Paolo Pasolini, ma non è certo l’unico. Accanto andrebbe collocato il nome di Franco Fortini e per certi versi, sia pure dopo una serie infinita di distinguo, anche quelli di Paolo Volponi, Italo Calvino, Umberto Eco, Edoardo Sanguineti. Domandarsi come mai la stragrande maggioranza degli intellettuali in azione tra anni Cinquanta e anni Settanta ha preferito rimanere al di qua del fenomeno, anziché tentare di attraversarlo e di comprenderlo; chiedersi le ragioni per le quali guadagnarsi l’etichetta di apocalittici e non quella di integrati, credo sia materia assai più complicata e labirintica. I motivi potrebbero essere numerosi e poco circoscrivibili: fuga dal moderno, aristocraticità intellettuale, paura di smarrire l’aura sacerdotale, complessi di casta, mal sopportazione per l’imborghesimento operaio, magari anche visione antimoderna. Ciò non giustifica la scelta di fronda nei confronti del capitalismo e nemmeno il tentativo di erigere un sotterraneo argine contro il dilagare del consumismo. Soprattutto non si intravede un barlume di coerenza tra le necessità storiche di un Paese che si scopre finalmente dentro l’orizzonte di un benessere diffuso e le rivendicazioni ideologiche che conducono al rifiuto. Mentre in quegli anni una famiglia media italiana inseguiva legittimamente il sogno di cambiare vita – e lo faceva ← 12 | 13 → con la più banale delle soluzioni: acquistare oggetti messi a disposizione dalla produzione industriale – gli intellettuali continuavano a rimanere chiusi in un’anomala torre d’avorio che essi chiamavano cultura marxista, spesso incapaci di decodificare i fenomeni che erano sotto i loro occhi e che abbisognavano semplicemente di essere compresi.

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SCENARI E LINGUAGGI

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Accendi, il Boom è in televisione!

Andrea BINI

Quando si cerca di descrivere che cosa è stato veramente il “boom” o “miracolo economico” italiano – ovvero quel decennio che va all’incirca dai primi anni Cinquanta e Sessanta – in genere si menzionano innanzitutto dati economici: la crescita del prodotto interno lordo con tassi di sviluppo medi del 5% annuo (grazie anche ai finanziamenti del piano Marshall), della produzione industriale, dell’occupazione e dei salari. Poi si citano i grandi mutamenti sociali causati da questo sviluppo economico; e cioè l’aumento esponenziale dei lavoratori nel settore industriale, la diminuzione degli occupati in agricoltura e il conseguente spostamento di grandi masse di popolazione dal sud rurale nelle grandi aree urbane e industriali del nord. A questo punto si ricordano i cambiamenti nel costume con l’affermarsi di uno stile di vita più spensierato e consumistico (pur ricordando che gli italiani rimarranno per decenni grandi risparmiatori). In sintesi, il boom viene descritto come quell’evento storico che nel dopoguerra dallo sviluppo economico porta ad una rivoluzione culturale.Il problema di questa ricostruzione (il fattore economico condizione dei cambiamenti socioculturali secondo un modello deterministico causa-effetto) è che è troppo schematica, nel senso che descrive un quadro molto incompleto di ciò che è avvenuto in quegli anni. È innegabile che il boom abbia significato il superamento definitivo del cupo clima postbellico così ben rappresentato dal cinema neorealista, un mondo di ristrettezze in cui – come nel celebre Ladri di biciclette di Vittorio de Sica (1948) – il possesso di una semplice bicicletta poteva fare la differenza fra una vita dignitosa e la povertà. Nel 1958, esattamente dieci anni dopo, Domenico Modugno vinceva il Festival di Sanremo con Nel blu dipinto di blu rivoluzionando la canzone italiana fino a quel momento ancora imbalsamata in modelli vecchi di decenni. Ma soprattutto, con il grido “volare” lanciato a braccia aperte dava voce ad una nazione finalmente ansiosa di guardare al futuro con entusiasmo e gioia di vivere. Il fatto è che il boom è stato ben più ← 15 | 16 → della naturale conseguenza dello sviluppo economico: è stato l’affermarsi rapido nell’immaginario degli italiani di un nuovo stile di vita, moderno, urbano e secolarizzato.

Il boom come modello televisivo

Se guardiamo i dati dovremmo parlare dell’affermarsi non di uno stile di vita ma piuttosto un ideale consumistico, che sarebbe rimasto fino agli anni Settanta un mito irraggiungibile per la maggior parte della popolazione. Basti dire che secondo un sondaggio DOXA del 1958 (anno della vittoria di Modugno a Sanremo) l’84% delle famiglie italiane non possedeva ancora un frigorifero, una lavatrice, o un televisore. In un altro celebre film uscito proprio quell’anno, I soliti ignoti di Mario Monicelli, uno dei ladruncoli protagonisti è talmente poco pratico di frigoriferi – in quegli anni vero e proprio simbolo del boom – che non riesce ad aprirne uno, rimanendo poi stupito della presenza del ghiaccio al suo interno. Ancora verso la metà degli anni Sessanta solo il 50% delle famiglie possedeva un televisore ed un frigorifero, mentre appena 23% aveva in casa una lavatrice (la lavapiatti era ancora un oggetto sconosciuto che le casalinghe italiane guarderanno a lungo con diffidenza). Nonostante siano ricordati come un periodo di recessione economica, violenze e terrorismo (i cosiddetti “anni di piombo”), è proprio negli anni Settanta che gli status symbol tipici di una società consumista e di massa (televisore, lavatrice, automobile, le vacanze) divengono finalmente alla portata di tutti gli italiani. Ma negli anni d’oro del boom italiano, a cavallo fra la fine degli anni Cinquanta e la metà degli anni Sessanta, per la maggior parte della popolazione questo ha rappresentato soprattutto una rivoluzione nell’immaginario collettivo che non aveva un corrispettivo reale.

Per spiegare questo evento di portata storica dobbiamo considerare un fattore decisivo per i cambiamenti nel costume italiano: la televisione. La televisione italiana difatti non ha solo raccontato il boom economico ma ha soprattutto contribuito a forgiarlo, a crearne il mito. Come è noto, il rapporto fra società moderna e media, fra realtà e la sua rappresentazione, è strettissimo ed indissolubile. Per questo motivo vale la pena ricordare brevemente la storia di questo rapporto. A cavallo fra gli ultimi decenni dell’ottocento e i primi del novecento nei paesi economicamente più avanzati (e l’Italia non è fra questi) la produzione industriale si orienta lentamente ma inesorabilmente verso i consumi di massa. Nascono i primi grandi magazzini, la pubblicità ed i mass media come li conosciamo oggi: grazie anche agli sviluppi tecnologici giornali ← 16 | 17 → settimanali e libri vengono ormai stampati in migliaia di copie, mentre le macchina fotografica, il fonografo ed il telefono da apparecchi di uso eminentemente professionale cominciano a diffondersi nelle famiglie (ovviamente all’inizio solo in quelle di livello economico alto).

Cinema e radio, anche se nati praticamente nello stesso anno (1895), avranno uno sviluppo molto diverso. Se il primo – fino alla fine degli anni Venti solo muto – diventa rapidamente il mezzo di intrattenimento e svago principale delle popolazioni dei centri urbani, la capacità diffusiva in tempo reale e la mancanza di privatezza delle comunicazioni della seconda venivano viste con una certa diffidenza dai governi. Perciò, anche a causa anche dello scoppio della prima guerra mondiale (1914-18), la radio rimarrà per anni un mezzo limitato ad usi particolari – celebre l’SOS lanciato dal Titanic prima di affondare nel 1912 – e gestito da enti governativi. In seguito, mentre in paesi come l’America si afferma rapidamente il modello commerciale privato e pluralista, in Italia il regime fascista impone il monopolio statale delle frequenze ed il controllo delle trasmissioni che, esteso alla televisione nel secondo dopoguerra, rimarrà praticamente inalterato fino agli anni Settanta. Nel 1926 con la nascita della Sipra (dapprima privata, poi diventerà pubblica) comincia l’era della pubblicità radiofonica in Italia, mentre nel 1927 nasce ufficialmente l’Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche (EIAR) che nel dopoguerra diventerà RAI (Radio Audizioni Italia).

Tuttavia Mussolini ed il fascismo snobberanno per molto tempo il mezzo radiofonico (come anche quello cinematografico), e solo negli anni Trenta – quindi con molto ritardo rispetto agli altri paesi – la radio si avvierà con fatica ad essere un mezzo di comunicazione di massa in Italia. Va ricordato che, come avverrà con la televisione negli anni Cinquanta, le trasmissioni non venivano seguite da casa (le radio sono ancora oggetti di lusso per pochi), ma in luoghi ed edifici pubblici come le scuole e le sedi dell’Opera Nazionale Dopolavoro, dove si proiettano anche film e si organizzano i primi viaggi vacanza. Il problema è che alla radio manca l’interesse pubblicitario degli industriali italiani per la mancanza di una vera produzione industriale di prodotti di consumo (soprattutto di beni alimentari e per la casa), la quale si sviluppa solo negli anni Trenta nelle grandi città del centro-nord, arrestandosi poi di colpo con l’inizio della mobilitazione bellica. Lo stesso destino subisce in tutto il mondo la nascente televisione, dopo che nel 1936 a Berlino la tedesca Telefunken aveva trasmesso nei luoghi pubblici le fasi salienti delle olimpiadi, mentre l’inglese BBC cominciava il primo servizio televisivo regolare della storia. In Italia solo fra il 1939 ed il 1940 ← 17 | 18 → vengono avviate delle trasmissioni sperimentali a Roma e alla fiera di Milano, tentativi bruscamente abortiti dal conflitto mondiale.

Dopo i duri anni del secondo dopoguerra la televisione italiana nasce quindi in sordina solo il 3 gennaio 1954, data in cui cominciano ufficialmente le trasmissioni RAI che proprio nel 1954 assume l’attuale denominazione di Radio Televisione Italiana. Ma la televisione in Italia diventa veramente un fenomeno di massa solo a partire dalla seconda metà degli anni Cinquanta. Basti pensare che il primo anno gli abbonati sono solo 88.000, con un segnale che raggiunge a malapena il 36% della popolazione. Gli anni 1955-57 sono quelli della svolta definitiva: nel 1955 esordisce Lascia o raddoppia, il mitico quiz condotto dal giovane Mike Bongiorno, mentre il 1957 – anno in cui finalmente il segnale copre il 90% della popolazione – segna la nascita dell’altrettanto mitico Carosello (3 Febbraio), programma di sketch pubblicitari che andrà in onda dopo il telegiornale serale per ben 20 anni, fino al 1977. Il fatto che la nascita e l’affermarsi della televisione italiana coincida con quelli del boom non può essere quindi un caso, ma è indizio di un legame profondo. Questo legame in Italia è caratterizzato dal fatto che, come abbiamo detto, le trasmissioni televisive vengono affidate in esclusiva ad un ente parastatale a stretto controllo governativo. La politica centralistica avviata dalla dittatura fascista per quanto concerne la radio viene proseguita nell’Italia repubblicana dai governi a guida democristiana, con la motivazione che le frequenze sono un bene di interesse pubblico di limitata disponibilità: il monopolio pubblico radio-televisivo (prima un solo canale cui si aggiungerà un secondo alla fine del 1961) come garanzia di pluralismo democratico. Tutto cambierà solo negli anni Settanta quando alcune sentenze della corte costituzionale legittimeranno la nascita delle prime televisioni private locali. Sarà una rivoluzione epocale e rapidissima: già nel 1977 l’Italia è la seconda nazione al mondo (dopo gli USA) per numero di televisioni private. Alla fine del decennio l’avvento del telecomando e della televisione a colori, in ritardo di parecchi anni rispetto agli altri paesi per ragioni economico-politiche, anticipa l’era dei grandi network commerciali degli anni Ottanta e la nascita del famigerato duopolio Rai-Mediaset che domina ancora oggi (anche se con molta fatica) la televisione cosiddetta generalista – ovvero quella non a pagamento che si rivolge ad un grande pubblico indifferenziato (sostanzialmente alle famiglie).

Questo rapido excursus storico ci fa intuire come sia stato possibile un cambiamento socio-culturale tanto repentino in un paese che ancora a metà degli anni Cinquanta era in grandissima parte molto tradizionalista ← 18 | 19 → ed ancorato al mondo rurale. Possiamo individuare tre fattori principali di trasformazione sociale caratteristici dell’era televisiva fra gli eventi citati sopra: 1) la natura stessa del medium televisivo; 2) la nascita e il successo impetuoso dei giochi a premi con Lascia o raddoppia? (1955); 3) la diffusione altrettanto virulenta della pubblicità televisiva con Carosello (1957).

Mass media e televisione

Come abbiamo detto, il rapporto fra società moderna e mass media è talmente stretto da configurare una dinamica di reciproca influenza non facile da sviscerare. Procediamo dunque con ordine. Appare come un dato consensualmente accettato che un medium di massa come quello televisivo possa avere una forza tale da condizionare fortemente la percezione dei suoi contenuti – secondo la famosa massima del sociologo canadese Marshall McLuhan nel lontano 1964: «il medium è il messaggio».1 Tuttavia questa affermazione acquista maggior valore se pensiamo che la rivoluzione nei costumi in Italia è avvenuta nonostante lo sforzo delle forze politiche (sostanzialmente il maggior partito al governo, la Democrazia Cristiana, legata a doppio filo con la chiesa cattolica) che controllavano la televisione pubblica.

Details

Pages
286
Year
2019
ISBN (PDF)
9782807611696
ISBN (ePUB)
9782807611702
ISBN (MOBI)
9782807611719
ISBN (Softcover)
9782807611382
DOI
10.3726/b16339
Language
Italian
Publication date
2019 (November)
Published
Bruxelles, Bern, Berlin, New York, Oxford, Wien, 2019. 286 p., 6 ill. b/w

Biographical notes

Inge Lanslots (Volume editor) Lorella Martinelli (Volume editor) Fulvio Orsitto (Volume editor) Ugo Perolino (Volume editor)

Inge Lanslots è Professore associato di Traduzione e di cultura italiana presso l’Università di Lovanio, sede di Anversa Lorella Martinelli è Ricercatrice di Lingua e traduzione francese presso l’Università "G. d’Annunzio" di Chieti-Pescara Fulvio Orsitto è Direttore del Centro Studi "Villa Le Balze" (Fiesole) della Georgetown University. Ugo Perolino è Professore associato di Letteratura italiana moderna e contemporanea presso l’Università degli Studi "G. d'Annunzio" di Chieti-Pescara.

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